CROI 2020 – Bollettino Conclusivo

  • 20 Marzo 2020
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BOLLETTINO CONCLUSIVO

Dolutegravir associato a maggior aumento di peso post-parto rispetto all’efavirenz
In due studi condotti su donne HIV-positive nell’Africa sub-sahariana si sono osservati aumenti di peso corporeo molto più cospicui nell’anno successivo al parto in partecipanti trattate con dolutegravir rispetto a quelle trattate con efavirenz. In uno di questi due studi, però, è emerso un altro elemento degno di nota: sebbene l’aumento di peso sia risultato più marcato con il dolutegravir, nelle partecipanti non si sono registrati aumenti più rilevanti di quelli osservati in donne HIV-negative, il che fa pensare che l’efavirenz possa limitare l’aumento di peso stesso.

I risultati dei due studi sono stati presentati la settimana scorsa alla Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2020), che si è tenuta in un’inedita modalità online dopo che l’incontro di Boston è stato annullato a causa dell’emergenza sanitaria legata al nuovo coronavirus e sindrome COVID-19.

Il primo è uno studio osservazionale di coorte condotto in Botswana su un campione di donne in stato di gravidanza, 122 HIV-negative e 284 HIV-positive: di queste ultime, 170 assumevano un trattamento antiretrovirale (ART) a base di dolutegravir, tenofovir disoproxil fumarato (TDF) ed emtricitabina, e 114 a base di efavirenz, TDF ed emtricitabina.

Alla quarta settimana post-parto, le partecipanti dei tre bracci avevano un indice di massa corporea simile; dopo 18 mesi, tuttavia, quelle trattate con dolutegravir e quelle HIV-negative pesavano circa 5kg in più rispetto a quelle trattate con efavirenz.

Il secondo studio, condotto in Sudafrica e Uganda, ha riscontrato che le donne che in gravidanza iniziavano ad assumere un trattamento a base di dolutegravir prendevano più peso dopo il parto rispetto a quelle che assumevano efavirenz. Nel braccio del dolutegravir si sono osservati aumenti in media di 4,35kg in più rispetto al braccio dell’efavirenz.

Negli studi sull’aumento di peso associato all’assunzione di antiretrovirali si attribuisce un ruolo importante all’inibitore dell’integrasi dolutegravir, ma a spiegare le differenze osservate in associazione ai regimi possono contribuire anche fattori di tipo genetico che influenzano il metabolismo dell’efavirenz. Circa una persona su cinque di origine africana è geneticamente predisposta a metabolizzare l’efavirenz più lentamente, il che risulta in livelli di farmaco più elevati, effetti collaterali più importanti e mancato aumento di peso. Sembra invece che chi metabolizza più rapidamente l’efavirenz sia più soggetto a prendere peso.

A CROI sono stati presentati diversi altri studi dedicati alla questione dell’aumento di peso associato alle terapie antiretrovirali, dai quali emerge che possano avere un peso i fattori genetici, mentre non sono risultati rilevanti elementi come il tasso metabolico o le modifiche al regime alimentare.

In uno studio condotto su 30 partecipanti che iniziavano la ART non sono stati osservati cambiamenti nel tasso metabolico a riposo, nella quantità di calorie assunte o nel consumo di ossigeno, eppure le partecipanti hanno preso in media 15,7kg in 12 mesi. In uno studio separato, condotto stavolta su 300 persone, è risultato che il cospicuo aumento di peso che si osservava dopo quattro anni di terapia era in larga parte imputabile a un peso già più elevato prima di iniziare la ART e alla scarsa attività fisica.

In un terzo studio si è invece cercato di capire se aumento di peso ed effetti collaterali neuropsichiatrici potessero essere influenzati dagli stessi fattori genetici. Sono stati messi a raffronto i dati relativi a massa corporea e sintomi neuropsichiatrici di 220 pazienti trattati con un inibitore dell’integrasi e 62 pazienti trattati con un inibitore della proteasi. Dopo sei mesi nei pazienti che presentavano una specifica variazione genetica è stato osservato un aumento di peso di entità molto più considerevole rispetto a pazienti che presentavano due altre variazioni; questo se assumevano un inibitore dell’integrasi, ma non se assumevano un inibitore della proteasi. Nello stesso gruppo di pazienti si è registrata anche una più elevata insorgenza di effetti collaterali neuropsichiatrici.

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Bambino con HIV in remissione a tre anni dall’interruzione del trattamento
A CROI 2020 è stato riportato il caso di un bambino statunitense di quattro anni che aveva contratto l’infezione da HIV durante la gestazione e che aveva iniziato la terapia antiretrovirale (ART) nell’arco di due giorni dalla nascita, smettendo però di assumere i farmaci un anno dopo: oggi, a tre anni di distanza, il piccolo paziente continua ad essere virologicamente soppresso anche senza l’ausilio delle terapie.
I farmaci antiretrovirali sono in grado di sopprimere la replicazione dell’HIV a lungo termine, ma tipicamente non appena se ne sospende l’assunzione i livelli di virus tornano a salire. Sono tuttavia stati descritti casi in cui questo rebound virale tarda a manifestarsi, e questo è tanto più probabile in bambini a cui i farmaci vengono somministrati molto precocemente.

Il bambino al centro di questo nuovo caso è nato a termine e in buona salute da una madre HIV-positiva che non si era sottoposta a cure prenatali, e quindi non aveva assunto farmaci per prevenire la trasmissione materno-fetale. Al piccolo sono stati somministrati antiretrovirali 33 ore dopo la nascita e un test effettuato al 14° giorno di vita è risultato positivo per l’HIV-DNA.

Quando il bambino aveva 13 mesi, la madre ha interrotto le terapie. Nei tre anni di follow-up, il bambino è rimasto clinicamente sano e ha continuato ad avere livelli di HIV-RNA non rilevabili (inferiori alle 20 copie/ml). Inoltre, i suoi livelli di anticorpi HIV sono calati per negativizzarsi all’età di 15 mesi, e da allora sono rimasti negativi.

L’équipe medica continua a monitorarlo, con lo scopo di determinare se questo controllo virologico sostenuto sia legato all’inizio precoce delle terapie o a qualche tipo di caratteristica unica di questo bambino oppure ancora al ceppo virale.

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Nuovi approcci per il dosaggio pediatrico
Le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomandano la somministrazione di abacavir in soluzione liquida come terapia elettiva di prima linea per i bambini dai 28 giorni di vita in su, ma un dosaggio approvato per i bambini sotto i tre mesi non c’è.

In uno studio condotto in Sudafrica e presentato a CROI 2020, la somministrazione due volte al giorno di una dose di 8mg/kg di abacavir a neonati HIV-positivi, sia normopeso che sottopeso, è risultata sicura ed efficace. Il farmaco è stato somministrato in combinazione con lamivudina e lopinavir/ritonavir a 25 bambini.

È stato poi presentato un secondo studio su sicurezza ed efficacia dell’abacavir in nove coorti osservazionali sudafricane che comprendevano bambini al di sotto dei tre mesi che avevano iniziato ad assumere la terapia antiretrovirale (ART) tra il 2006 e il 2017. Su 1275 bambini, a 931 è stato somministrato l’abacavir e a 344 la zidovudina. Nei bambini che assumevano abacavir si sono osservate meno interruzioni della terapia rispetto a quelli trattati con zidovudina. Fattori come l’inizio della somministrazione di abacavir nel primo mese di vita o il basso peso alla nascita del bambino non hanno mostrato di incidere negativamente sulla soppressione virale.

Un altro studio ha dato risultati che sostengono l’utilità di raddoppiare il dosaggio di dolutegravir nei bambini con coinfezione HIV/tubercolosi trattati con l’antitubercolare rifampicina. La rifampicina infatti riduce l’efficacia del dolutegravir e per questo per gli adulti è già previsto di raddoppiare il dosaggio, ma questo studio è il primo a dare risultati a supporto di questa strategia anche nei casi pediatrici.

Gli autori hanno condotto uno studio di efficacia su 31 bambini e un’analisi farmacocinetica su 17 bambini: raddoppiando il dosaggio del dolutegravir in combinazione con la rifampicina si sono ottenute concentrazioni ematiche di farmaco paragonabili a quelle osservate con il dolutegravir senza rifampicina.

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Malattia polmonare nei giovani e negli adulti
La somministrazione di azitromicina una volta a settimana ha mostrato di ridurre la necessità di ricovero e gli episodi di esacerbazione acuta di malattia polmonare (comparsa di nuovi sintomi o peggioramento di sintomi pre-esistenti) in bambini e adolescenti HIV-positivi con malattia polmonare cronica in Malawi e Zimbabwe.

La malattia polmonare cronica HIV-correlata è diffusa tra bambini e adolescenti nell’Africa sub-sahariana nonostante la terapia antiretrovirale, ed è causa di patologie anche gravi, tra cui le infezioni delle vie respiratorie.

Gli autori dello studio BREATHE hanno ipotizzato che l’azitromicina, un antibiotico con proprietà anti-infiammatorie e antimicrobiche, potesse giovare alla funzionalità polmonare prevenendo le infezioni del tratto respiratorio e tenendo sotto controllo l’infiammazione sistemica.

Per verificarlo, hanno reclutato 347 bambini e adolescenti HIV-positivi con malattia polmonare cronica. Si sono considerati come aventi malattia cronica individui con un punteggio (o più precisamente, uno z-score) inferiore a 1 per il FEV1 (forced expiratory volume in one second, ossia la massima quantità d’aria che si riesce a espirare forzatamente in un secondo). Il FEV1 si misura con uno strumento detto spirometro, che misura la forza di inalazioni ed esalazioni di un paziente che soffia in un boccaglio.

I partecipanti sono stati randomizzati per ricevere una volta alla settimana una somministrazione per via orale di azitromicina con dosaggio calibrato in base al peso, oppure un placebo. Dopo 48 settimane, nel braccio con placebo il tasso di esacerbazione acuta di malattia polmonare è risultato maggiore di 1,96 volte e il tasso di ricovero di ben 4,2 volte.

Da un altro studio si è appreso invece che le persone con HIV al di sotto dei 50 anni d’età perdono funzionalità polmonare molto più rapidamente rispetto a quelle HIV-negative. Questa analisi di un ampio studio di coorte statunitense ha inoltre mostrato che la funzionalità polmonare tende a declinare più rapidamente in chi ha basse conte dei CD4.

Lo studio ha coinvolto 2216 partecipanti (di cui 1168 HIV-negativi) con età mediana di 50 anni. La funzionalità polmonare è stata determinata con test appositi, tra cui quello del FEV1, all’inizio dello studio, e poi con periodicità semestrale dal 2009 al 2017.

Al baseline, la funzionalità polmonare risultava inferiore nei partecipanti HIV-positivi. Per gli ultracinquantenni il tasso di declino non variava tra individui HIV-positivi e -negativi, ma al di sotto dei cinquant’anni in presenza di un’infezione da HIV il FEV1 si riduceva più rapidamente: il tasso annuale di declino per questo gruppo è risultato quasi del 50% superiore alle attese.

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L’inibitore del capside a lunga durata d’azione GS-6207 si conferma sicuro ed efficace
In uno studio di fase Ib, l’inibitore del capside a lunga durata d’azione GS-6207 ha mostrato una potente attività antivirale virale oltre che un ottimo profilo di sicurezza, a quanto emerge dai risultati che sono stati presentati a CROI 2020. Nello studio è stato indagato il rapporto dose-risposta di GS-6207 somministrato con iniezioni sottocutanee sia in persone mai precedentemente sottoposte a terapia per l’HIV sia in persone che avevano già ricevuto il trattamento. I partecipanti sono stati randomizzati per ricevere una singola somministrazione sottocutanea di GS-6207 (in dosi di 20, 50, 150, 450 o 750mg) oppure un placebo, e dieci giorni dopo hanno iniziato ad assumere la terapia antiretrovirale convenzionale.

L’attività antivirale di GS-6207 è stata riportata in una variazione mediana nella carica virale, e più alto era il dosaggio, migliore è stata la risposta ottenuta.

I dati sulla sicurezza sono stati raccolti in cieco e così resterà fino alla fine dello studio. Il tasso di eventi avversi è risultato simile per tutti i dosaggi, e l’effetto collaterale più diffuso è stata una reazione locale lieve o moderata al sito di iniezione.

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Difficoltà di diagnosi HIV per chi assume la PrEP nelle prime fasi dell’infezione; rischio di farmacoresistenze se l’uso della PrEP è prolungato
La PrEP, ossia l’assunzione regolare di farmaci per prevenire l’infezione da HIV, si è dimostrata incredibilmente efficace se presa esattamente come prescritto (e ciò vale sia se la si assume in maniera continua che intermittente, o on demand). Se l’aderenza è buona, sono molto rari i casi di fallimento: quando avviene, di solito è da imputare a una farmacoresistenza.

Tuttavia l’assunzione di questi farmaci nelle prime fasi dell’infezione può ostacolare la diagnosi perché riduce o ritarda l’individuazione degli antigeni virali o della risposta immunitaria dell’organismo al virus.

In uno studio condotto a San Francisco sono stati documentati undici casi di individui che assumevano la PrEP quando già avevano contratto un’infezione ancora non diagnosticata – casistica che nello studio è stata denominata di ‘sovrapposizione HIV/PrEP’. Per sei di loro si ritiene che l’infezione sia stata contratta mentre assumevano la PrEP, mentre gli altri cinque avevano iniziato a prendere i farmaci e hanno ricevuto la diagnosi proprio durante uno dei controlli previsti per la valutazione della PrEP.

Gli autori dello studio hanno individuato tre scenari di difficoltà che si possono presentare in queste situazioni.

Il primo, l’insorgenza di una farmacoresistenza, può verificarsi quando si inizia ad assumere la PrEP con in corso un’infezione HIV acuta non diagnosticata e si ha un’elevata carica virale. È il caso di uno dei partecipanti allo studio, che aveva contratto l’HIV quattro giorni prima di sottoporsi a un test degli anticorpi nell’ambito della valutazione della PrEP.

Un secondo scenario suggerito da uno dei casi verificatisi nello studio è che la PrEP potrebbe essere “sopraffatta” se i livelli di esposizione sono molto alti. Un uomo che assumeva la PrEP da un anno e riferiva di aderire correttamente alle prescrizioni è risultato positivo all’HIV dopo un periodo di intensa attività sessuale, nel quale ha avuto rapporti anali ricettivi non protetti con circa 45 partner. Secondo i ricercatori potrebbe esserci una soglia oltre la quale la PrEP perde efficacia, se l’esposizione all’HIV è particolarmente intensa.

In un terzo caso, un uomo che aveva interrotto la PrEP ha ricominciato ad assumerla tre giorni dopo aver avuto un rapporto sessuale con un nuovo partner. Questo partner è poi risultato positivo all’HIV e con alti livelli di carica virale. Il partecipante allo studio inizialmente era risultato negativo, il che faceva pensare che i farmaci avessero avuto efficacia come PEP (profilassi post-esposizione); tuttavia, tre settimane dopo i test hanno rilevato HIV-DNA provirale intatto. Si è ora in attesa di ulteriori accertamenti.

Anche uno studio condotto in Thailandia e presentato a CROI 2020 ha riscontrato che un esiguo numero di individui che assumevano la PrEP mentre avevano in corso un’infezione HIV non diagnosticata sviluppavano una resistenza all’emtricitabina, uno dei due principi attivi che compongono il regime PrEP.

Quattro pazienti su sette a cui è stata diagnosticata un’infezione acuta non hanno sviluppato farmacoresistenze. Il lasso di tempo intercorso tra quando hanno iniziato la PrEP e il momento in cui hanno ricevuto un test della carica virale positivo (e hanno dunque interrotto l’assunzione dei farmaci profilattici) è stato di 2, 2, 7 e 15 giorni. Tre di loro hanno sviluppato una farmacoresistenza, solo all’ emtricitabina. Assumevano la PrEP rispettivamente da 29, 35 e 122 giorni prima di ricevere la diagnosi di HIV.

Non sono stati osservati casi di resistenza al tenofovir (che clinicamente sarebbero più importanti). Dallo studio sembra di evincere che l’assunzione della PrEP durante l’infezione HIV acuta per un periodo superiore alle 2-3 settimane abbia alte probabilità di causare l’insorgenza di farmacoresistenze.

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Abstract dello studio di San Francisco sul sito ufficiale della Conferenza
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Abstract dello studio della Thailandia sul sito ufficiale della Conferenza